Maniac (Cary Fukunaga, Patrick Somerville)

Pubblicato il da Emanuele Rauco

Maniac (Cary Fukunaga, Patrick Somerville)

(pubblicato in origine su La rivista del cinematografo di ottobre '18)

Dopo aver fatto conoscere il proprio nome con la sorprendente regia della prima stagione di True Detective, Cary Fukunaga torna con una serie che promette altrettante sorprese, se non di più. Ma non torna in tv bensì su Netflix (per cui girò Beast of No Nation, noto per essere il primo film prodotto da Netflix a essere selezionato a un grande festival cinematografico, Venezia per la precisione): dal 21 settembre è stata diffusa infatti Maniac, miniserie in 10 episodi, adattamento di un’omonima serie norvegese. 

Il protagonista è Jonah Hill che interpreta Owen, un impiegato non proprio brillante e fortunato, con disturbi depressivi e psichici che lo portano a pensarsi un eroe nonostante la sua vita grama. Per cercare di guarire, partecipa a un percorso medico sui generis, sospeso tra realtà e impossibili mondi immaginari, in cui sarà coinvolta anche Annie, interpretata da Emma Stone. Al centro un medicinale miracoloso praticamente per ogni disturbo ma la cui sperimentazione sarà più complicata del previsto. 

Oltre che regista, Fukunaga è anche responsabile dell’adattamento e sceneggiatore con Patrick Somerville e ha scelto un campo d’azione completamente differente dal torbido noir di True Detective: Maniac infatti è una dark comedy fantascientifica che racconta di follia, amore e possibilità immaginative ponendosi in un certo senso sulla scia di Gore Verbinski e dei suoi film più personali come The Weather Man e La cura dal benessere. Un vago sentore distopico, legato a un ambientazione futuribile che sembra rileggere in chiave indie film come Blade Runner, e una predilezione per un racconto complesso, che lavori dentro le menti dei personaggi, che rende sempre oscuro il confine tra verità e menzogna: Maniac sceglie la pericolosa strada del mindgame, ovvero quel tipo di narrativa in cui le linee di racconto si intersecano fino al puzzle e si risolvono (forse) dentro la mente dei personaggi e in cui lo spettatore è coinvolto per capire cosa sia reale e cosa no, per decifrare le diramazioni (esempio massimo è Inception di Christopher Nolan). 

Ma rispetto al filone in questione, Maniac non si chiude né vuole incartarsi in scivolosi rivoli ma sceglie una via più diretta e comunicativa esplorando attraverso la scrittura e la regia le possibilità del racconto, dipingendo scenari e registri diversi, costruendo una summa di immaginari, in un discorso anche riflessivo, teorico e meta-linguistico sulla possibilità del mezzo tv e streaming, del formato antologico così di moda (vedasi anche La ballata di Buster Scruggs, il film dei fratelli Coen nato da una miniserie antologica, su Netflix dal 16 novembre) e che proprio Fukunaga contribuì a lanciare con True Detective. Resta un gioco, certo, ma con l’ambizione soprattutto visiva e registica di non somigliare a nient’altro pur somigliando a tutto. Non sempre ci riesce, ma le zampate che sa tirare fuori sono notevoli.

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