Dea madre, dea oppressa: The Handmaid’s Tale

Pubblicato il da Emanuele Rauco

Dea madre, dea oppressa: The Handmaid’s Tale

Se i racconti distopici di cui negli ultimi anni si cibano cinema e tv, dopo la letteratura che ci campa giustamente da decenni, hanno un senso è perché riescono a far suonare nello spettatore dei campanelli d’allarme sull’oggi. Non generici, ma precisi. The Handmaid’s Tale di quei campanelli abbonda ed è uno dei motivi per cui la serie tv di Hulu (in Italia su Tim Vision) è diventata la più amata della stagione.

 

La trama è tratta da Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood e racconta di un ipotetico futuro in cui gli USA sono diventati una teocrazia, in cui i Comandanti - ovvero gli uomini di potere - hanno schiavizzato le donne fertili e le hanno reso macchine da procreazione: la protagonista è una di queste ancelle che racconta la sua vita passata, presente e il tentativo di ritrovare la figlia. Ideata per il piccolo schermo da Bruce Miller, The Handmaid’s Tale è più che un dramma distopico un vero e proprio film dell’orrore di nuovissima generazione, basato sull’oppressione femminile, sulla deificazione della maternità e sulla follia delle derive teo-conservatrici (che in America stanno cominciando a fare i loro danni). 

 

“Tutto questo diventerà ordinario” dice zia Lidia, l’aguzzino che serve il potere dei comandanti e la cieca devozione al dio che crea frutti per le signore sterili. Ed è nell’evidenziare in questa società atroce le escrescenze del nostro mondo, i rigurgiti omofobi, anti-femministi e ancora peggio fanatici e anti-progressisti che sta la principale fonte di terrore della serie: le donne come oggetti di proprietà (i veri nomi sono quasi dei patronimici, la protagonista June viene chiamata DiFred, le altre DiGlen, DiWarren e via dicendo), vittime di violenze silenziose e simboliche o anche di drammi psicologici in cui la lotta di classe è anche lotta di genere (straziante il rapporto tra Difred e la moglie del suo comandante, oppressa anche lei da un marito che cerca di fecondare l’ancella davanti ai suoi occhi, chiedendole di reggerle i polis). Le sequenze più inquietanti sono i flashback con cui Difred (bravissima, come sempre, Elisabeth Moss) ricorda l’avvento della nuova dittatura, lo strisciante odio verso le donne, la subdola oppressione medievale nei comportamenti: il sorgere della dittatura visto dal di dentro. 

 

La principale riuscita di Miller e dei suoi registi (quasi tutti donne, a partire da Reed Morano che ha diretto i primi tre episodi) sta nell’utilizzo della fotografia, dei colori, della composizione delle immagini, nei piani medi e lunghi per comunicare la follia, di una forma laccata e di un ritmo meticoloso che si aprono a immagini sensazionalistiche ma efficaci, di un perfezionismo a volte stucchevole ma perfettamente funzionali a comunicare l’angoscia come a voler celare la violenza e l’orrore sotto la patina dell’estetismo ma proprio per questo esaltandoli per contrasto. Ha un tema forte e un racconto solidissimo alle spalle The Handmaid’s Tale, ma la serie sa brillare di luce propria nella narrazione mai disperata, nella descrizione della resistenza o resilienza delle sue protagoniste, anzi facendo di queste sfumature il vero cuore politico del discorso, retto da un cast di grande livello. Nell’industria culturale USA è l’anno delle donne, come il precedente era l’anno delle minoranze afro-americane: forse è per questo che la serie ha vinto 8 Emmy. Ma al di là delle tendenze, lo show di Miller è un pugno allo stomaco che va al di là della sua componente femminista. 

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