Furore (Grapes of Wrath, John Ford, 1940)

Pubblicato il da Emanuele Rauco

Furore (Grapes of Wrath, John Ford, 1940)

(dal catalogo del premio Sergio Amidei 2017)

In molti, lungo i circa 50 anni di carriera, hanno accusato John Ford di essere un conservatore e un reazionario. Qualcuno si spinse addirittura a dargli del fascista. Eppure basterebbe un capolavoro come Furore (The Grapes of Wrath) per smentire ogni etichetta politica. 

Il romanzo omonimo di John Steinbeck esce nel 1939, è un successo clamoroso e diventa quasi immediatamente il romanzo simbolo della Grande Depressione cominciata 10 anni prima. Ford, l’anno successivo alla pubblicazione, ne realizza un adattamento straordinario che prende i punti di forza del suo cinema fino ad allora e li porta a definitiva maturità nonostante più di 20 anni di carriera e almeno un caposaldo come Ombre rosse (Stagecoach, 1939). 

Furore è a suo modo un western, o quantomeno è una perfetta parabola americana, un viaggio epico verso l’Ovest in cui l’eroe che viene dal nulla - in questo caso dalla prigione - e conduce un gruppo, sineddoche del popolo americano ancora più peculiare trattandosi di una famiglia, nel viaggio verso la frontiera del benessere o della sopravvivenza. E nel viaggio, la famiglia Joad incontra nemici e pericoli molto più insidiosi degli indiani o degli sgherri di un latifondista: Tom e famiglia conoscono l’orrore generato dal crollo della Borsa nell’ottobre del 1929, la distruzione di un’intera economia, l’impossibilità di trovare lavoro e dignità. Ma soprattutto incontrano la disperazione umana e l’avidità di chi la sfrutta. 

Oltre al contesto, a fare la differenza tra questo western contemporaneo e il western che Ford porterà all’apice subito dopo (con Sfida infernale [My Darling Clementine, 1946] in primis), è nello stile e nel tono narrativo: Furore è un film emozionante e commovente, di rigore, asciuttezza e severità che con il senno del poi si potrebbe definire prodromo del neorealismo. Per la leggenda che vedrebbe Ford aver vietato trucchi e profumi sul set per avvicinare il cast all’atmosfera della Depressione, ma soprattutto perché del romanzo di Steinbeck il regista ha preso la crudezza e la sofferenza prima del racconto, perché ha adattato lo splendore visivo tipico del suo modo di fare cinema ai dettagli della povertà, facendo nascere un’opera che attraverso la forza dell’arte mostri la rinascita, la descrizione di uno stato di miseria e l’orizzonte del futuro: quel finale con Tom in cammino verso il sole nascente è più che emblematico. 

I momenti di grande potenza emotiva e registica ovviamente non si contano (l’immagine della “carovana” Joad radunate sul camion/casa, la sepoltura del nonno e il ballo con ma’ Joad, una superba Darwell), ma più di ogni altra volta, in Furore Ford cerca di scavare dentro l’immagine per trarne un affresco, per raccontare un’epoca e non solo una storia. E con la maestria dell’essenziale, dà un eroe vero, vivo, possibile all’America del New Deal che presto andrà alla guerra: quel Tom Joad il cui monologo sarà voce per la chitarra di Woody Guthrie, di Bruce Springsteen e di Zack de la Rocha dei Rage Against the Machine. 

“Io sarò lì ovunque trovi un poliziotto che picchia un ragazzo, ovunque trovi un neonato che piange per fame, ovunque ci sia nell’aria la voglia di lottare contro il sangue e l’odio. Io sarò lì ovunque trovi qualcuno che combatte per un posto dove vivere o un lavoro dignitoso. Ovunque ci sia qualcuno che lotta per essere libero”. Altro che reazionario: con Furore, Ford dimostra di essere un illuminante esempio di socialismo liberale. 

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