Quello che so sull'amore - Gabriele Muccino

Pubblicato il da Emanuele Rauco

Quello che so sull'amore - Gabriele Muccino

Andrà avanti per giorni, Gabriele Muccino, un po' onesto un po' lamentoso, a raccontare dei suoi patemi nell'industria americana, delle difficoltà coi produttori statunitensi, del giogo del pubblico che dopo alcune preview andate male gli ha fatto riscrivere il finale. Ma davvero Muccino cadeva dal pero e non sapeva a cosa andava incontro? Come se i due film americani che aveva già girato non gli avessero insegnato nulla. Forse la verità sta nel fatto che di Quello che so sull'amore (Playing the Fields), a Muccino interessava davvero poco.

Dirà che la storia dell'ex-calciatore finito ad allenare la squadra del figlio, mentre cerca di riconquistare la moglie in procinto di risposarsi doveva essere più drammatica, e che i produttori, volendo incasellarla come classica commedia sentimentale, gli hanno fatto ritoccare il film. Ma quello che si evince dalla sceneggiatura di Robbie Fox, è che siamo al grado zero della commedia americana, al tentativo quasi teorico - e comunque involontario - di inanellare tutti i cliché del genere per cercare l'ubercommedia. Ovviamente, in questa affermazione c'è una buona dose di ironia, perché Quello che so sull'amore è semplicemente un film piatto e banale sotto la soglia consentita di semplicità.

Ma forse se ne potrebbe trarre anche una lezione sul modo di lavorare a Hollywood, in cui anche un film indipendente (nel senso non prodotto da una major), con un cast interessante (Butler, Biel, Thurman, Zeta-Jones, Quaid) e 35 milioni di dollari di budget deve essere perfettamente inserito in un meccanismo più forte del film stesso, che lo sovrasta in ogni senso. Ma non è proprio la storia del cinema e dello star system hollywoodiano a insegnarci che i registi, quando sono bravi, sanno lasciare zampate anche dentro ingranaggi soverchianti?

E dove sono qui le zampate? Non c'è una rilettura o riscrittura della classica commedia di ri-matrimonio e alle convenzioni viene data pochissima vita; le attrici sono sempre levigatissime (artificialmente) in volto e giocano a fare le seduttrici di una certa età - ora di moda - ma Uma Thruman in versione Marilyn un po' imbarazza; la trama ci prova 2 o 3 volte a a variare, ma tutto rientra rapidamente nei ranghi. Le uniche soddisfazioni ce le danno quei pochi momenti tipicamente mucciniani (come il confronto tra i protagonisti mentre lei si prova l'abito nuziali) risolti in pochi tocchi senza attori sbraitanti per 10 minuti. E lo si deve all'influenza dei produttori, più che alla sensibilità di un regista che ha perso se stesso e anche quando si trova non soddisfa.

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