Ghezzi e lazzi

Pubblicato il da Emanuele Rauco

Ghezzi e lazzi

Non che non ci abbia provato, e più di una volta. Qualche giorno fa mi appresto a dare a Enrico  Ghezzi l'ennesima possibilità. Apro un numero di FilmTv di un paio di settimane fa, rivista sulla quale il nostro tiene una rubrica dal nome Detour. La prima frase, contenente 3 periodi e almeno 2 parole incomprensibili (che adesso non mi trovo sottomano, ma è facilmente verificabile), mi ha fatto chiudere il settimanale. E pensare che Enrico Ghezzi è uno dei problemi alla base del deperimento non tanto della critica in sé quanto del suo rapporto con i lettori.

Perché se parlo con un ultra-quarantenne del mio lavoro mi guarda interessato e affascinato e sotto quell'età mi si guarda con sospetto se non con disprezzo? Perché negli ultimi 20/25 anni si è solidificata in maniera quasi rocciosa l'idea che i critici siano inetti, professorini incomprensibili, cineasti falliti. E la colpa di chi è? Certo non solo di Ghezzi o dei ghezzini, ma di sicuro il suo apporto a questa visione è fondamentale. Spesso anche nel passato tra critica e pubblico c'è stato un distacco, ma era salutare perché la critica e la riflessione sul cinema e sull'arte cercava di colmare il distacco parlando ai lettori, cercando di porsi come punto di riferimento, di ponte tra ciò che li appassionava e ciò che non interessava al pubblico. Non solo consigli per gli acquisti, ma anche bussola per orientarsi in immagini che la scuola italiana non ha mai voluto insegnare a leggere ai propri alunni.

Poi arriva un uomo che è il tipico ritratto sprezzante dell'intellettuale, che parla fuori sincrono, simbolo elitario se ce n'è uno, che usa termini incomprensibili, locuzioni inafferrabili e non si comprende mai cosa voglia dirci del film. Affascinante se ci focalizziamo su un'esperienza estetica, ma la critica non è un'esperienza o lo è solo in (minima) parte. Che sia incomprensibile sarebbe il minimo, ci si potrebbe sforzare nello scovare nel suo pensiero, volendo. Il dato è che è letteralmente illeggibile: paragrafi lunghissimi con minima punteggiatura, parentesi continue che non si chiudono, nomi minuscoli e attaccati che paiono, non sequitur senza freni. E allora si alimenta una figura di critico che gode nell'allontanarsi dalla gente sentendosi oracolo che è il lettore a dover interpretare e non più viceversa. Ma Ghezzi è diventato una macchietta, una parodia di se stesso, forse suo malgrado, e raccogliendo attorno a se una schiera di seguaci, per non dire di imitatori, ha definito chi è e cosa fa un critico agli occhi di spettatori e lettori. La colpa è della tv che ne ha ampliato la fama in modo considerevole e, ironicamente, è anche il suo miglior servizio alla comunità cinefila: da decenni con Fuori orario, Ghezzi permette la scoperta di autori, film, filoni e momenti della storie e luoghi della geografia del cinema preziosissimi, e ormai unici nel panorama. E' quello che deve fare un critico, ampliare gli orizzonti: Ghezzi lo fa meglio quando non usa le parole. Ed è un paradosso con cui ci troviamo a confrotno, chi sotto i 40 anni fa questo lavoro, che ereditiamo uno status sociale che dobbiamo cercare di ribaltare. Aiutando il pubblico, non disprezzandolo. E l'utilizzo di una parola piuttosto che un'altra è il primo segnale di disprezzo. O del suo contrario.

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