L'ascesa (Voskhozhdeniye, Larisa Shepitko, 1977) #Venezia75
La guerra è il campo di battaglia dello spirito, forse prima che dei corpi e delle ideologie. L'ascesa fin dal titolo parla di questa dimensione metafisica, scartando ironicamente il senso letterale e figurato del termine, sfruttando i propri temi per ampliarli con lo sguardo. L'invasione nazista in Bielorussia è raccontata attraverso il viaggio di due partigiani che devono recuperare del cibo per il proprio gruppo: feriti, sovrastati da neve e gelo, trovano rifugio in una casa. Ma i tedeschi arrivano e li portano in prigione: è lì che dovranno confrontarsi con le debolezze e le risorse dell'essere umano.
Dal bianco accecante e infinito delle distese innevate al nero chiuso e oppressivo del carcere e delle sale interrogatori: gli assoluti sono il centro dello stile del film perché Shepitko riflette sull'assoluto attraverso le miserie e le atrocità dell'esistente. Un film di personaggi assediati e accerchiati, in cui tutto è un nemico che costringe l'uomo a confrontarsi con la propria umanità, con la moralità che può azzerarsi o elevarsi. E poco a poco, seguendo la parabola di Solotnikov, il film si astrae, si eleva verso l'alto o guarda l'abisso in faccia, sceglie le divergenti vie dei protagonisti e le segue anche filmicamente per mostrare gli estremi possibili in una situazione estrema, per dipingere l'essenza dell'uomo e trascenderla, arrivando a un finale potente che - fatte le giuste proporzioni - cerca la via di Dreyer. E a suo modo la trova.