L'intendente Sansho (Sanshō Dayū, Kenji Mizoguchi, 1954) #Venezia74 #VeneziaClassici #BiennaleCinema2017
È un cinema utopico quello di Mizoguchi ed è un film utopico L'intendente Sansho: utopico perché racconta la ricerca di pietà e compassione di una famiglia (madre e due figli) dispersa dal potere e dalle convenzioni del mondo - intorno all'anno 1000 o oggi - e lo fa in un modo che si fida in modo abbacinante delle immagini, del loro senso, della loro purezza.
"Un poema epico di folklore" come viene detto a inizio film che nelle scelte di Mizoguchi diventa un canto alla bellezza perduta delle anime con la forza delle immagini che rende concreta la purezza dello sguardo del regista (nessuno forse ha mai ripreso gli specchi d'acqua - simbolo primitivo per eccellenza - come lui). Una purezza che nasce dallo scontro dell'uomo con la cultura e con la civiltà e diviene forma attraverso una grande articolazione narrativa, personaggi di straziante umiltà, un incredibile controllo della messinscena, un toccante pudore nella descrizione dei sentimenti e dei loro effetti: basterebbe la sequenza della canzone materna ascoltata dopo anni per sancire il livello del film. Per una volta, la parola capolavoro sembra l'unica possibile per un'opera che ha l'ambizione di guardare al mondo e all'uomo con calma attenta e dolorosa. E per questo a 60 anni di distanza appare ancora un'utopia.