Sing (Garth Jennings, 2016)

Pubblicato il da Emanuele Rauco

Sing (Garth Jennings, 2016)

È facile per Sing vincere la sfida di piacere al pubblico: da una parte la struttura drammaturgica dei talent show filtrata dallo spettacolo di Broadway e Hollywood; dall'altra la confezione simil-disneyana con animaletti umanizzati e inter-specisti (un po' alla Zootropolis: lì però la cornice era poliziesca). Jennings racconta di un impresario teatrale che per risollevare il proprio teatro organizza un enorme audizione per premiare i più bravi cantanti amatoriali della città e realizzare uno spettacolo grandioso. Ma ovviamente, gli ostacoli saranno moltissimi, a partire dai cantanti. 

Nella più pura tradizione statunitense in cui si racconta il dietro le quinte di uno spettacolo teatrale e la sua costruzione passo dopo passo, Sing è un film solo sulla carta ruffiano e sicuro del proprio successo, della formula in cui i classici del musical teatrale (The Producers) o cinematografico (42^ strada) si combinano con il pop da classifica contemporaneo. In realtà si comporta proprio come i personaggi di questo tipo di film, come l'elefantessa Meena in questa caso: per circa un'ora è un film timido, chiuso in sé stesso dalle gabbie convenzionali del modello talent televisivo di cui sembra più un'imitazione che una parodia e anche dalla nostalgia per il vecchio teatro che rischia di spaesare buona parte del pubblico di riferimento, quello infantile. Ma quando, come Meena, Sing si lascia andare, quando trova la propria vena spettacolare e visiva, riavvicina il pubblico con un genuino lato musical che consente anche la creazione di gag e momenti di bel cinema hollywoodiano (i calamari come illuminazione, la corsa del padre di Johnny sulle note di Gimme Some Lovin', la distruzione del teatro mentre Mike canta My Way). Un'operazione facile sulla carta che rischia di subire le proprie carte vincenti: ma poi la musica e il suo potenziale salvano la baracca, come anche nel film. 

Voto: ✶✶

Commenta il post