Bulli e pupe (Joseph L. Mankiewicz, 1955)
Se dovessi pensare al regista hollywoodiano più lontano possibile dall'immaginario del musical, uno dei primi che mi verrebbe in mente è Mankiewicz. Regista intellettuale, narratore machiavellico, maestro del dialogo e della parola. La sua estraneità alla fisicità del musical appare evidente in Bulli e pupe: nel raccontare la storia di Frank Sinatra che per salvare la sua bisca coivolge il giocatore Marlon Brando in una scommessa amorosa dai risvolti imprevisti, Mankiewicz gioca infatti sull'adattamento, anche qui sulla parola.
Adagiandosi sugli splendidi colori pastello di Harry Stadling jr e sulle scene irrealistiche di Oliver Smith, Joseph C. Wright e Howard Bristol, Mankiewicz cerca di trasformare una storia di amore, azzardo e canzoni, un ritratto scanzonato dei bassifondi newyorkesi dove la malavita era all'acqua di rose e il bigottismo non durava più a lungo di un viaggio all'Havana, in un acuta gara di astuzia tra due gambler, in un intrigo di truffe e bugie tra uomini e donne: se i numeri musicali non brillano per impianto e coreografia, soprattutto per messinscena, sono i dialoghi incalzanti, ripresi con lunghe inquadrature larghe abbastanza da far entrare lo spazio e gli attori a segnare il senso mankewicziano del cinema. E si finisce per apprezzare Bulli e pupe per i motivi per cui di solito si rifiuterebbe un musical.
★★
P.S. Possibile che circoli ancora una copia in pan & scan su Sky Classics nonostante sia distribuita da Miramax?